LA VITA NEI CAMPI PROFUGHI DELLA TURCHIA: un resoconto di prima mano del conflitto siriano

Posted by on Gen 30, 2014 in foto, Home, Novità | 0 comments

LA VITA NEI CAMPI PROFUGHI DELLA TURCHIA: un resoconto di prima mano del conflitto siriano

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«Nel mese di marzo cadrà il terzo anniversario della guerra in corso in Siria, un conflitto che ha già prodotto centinaia di migliaia di sfollati di tutte le età. Tutto è iniziato con proteste pacifiche in cui si chiedeva libertà e dignità; il governo ha risposto con la violenza arrestando, torturando e sparando ai dimostranti. Questa violenta reazione delle forze di sicurezza ha fatto esplodere la rabbia popolare e le manifestazioni si sono diffuse in tutto il paese. A ciò il governo ha reagito con un’ulteriore stretta, inviando nelle città mezzi militari e forze armate per porre fine alle proteste. Man mano che la situazione si deteriorava, e sempre più persone vedevano cadere familiari e amici, alcuni attivisti hanno imbracciato le armi e hanno iniziato a combattere il regime. Purtroppo, questa lotta è ancora in corso, con spargimenti di sangue quotidiani.

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Il numero dei fuggiaschi verso i paesi confinanti (Turchia, Libano e Giordania) e attualmente sistemati in campi profughi allestiti in quei paesi è stimato sul milione di unità, di cui circa la metà sono bambini. Il conflitto ha creato una crisi umanitariana gravissima sia per i rifugiati che per i paesi che li accolgono. Ho quindi deciso di esplorare questi campi per vedere con i miei occhi cosa sta accadendo, per scoprire la realtà e verificare la situazione dei rifuguati parlando con i diretti interessati, ascoltando le loro storie e le loro opinioni sul modo in cui sopravvivono, su come vengono trattati e quali difficoltà si trovano ad affrontare giorno dopo giorno. Racconterò l’esperienza che ho vissuto recandomi nei campi nella Turchia meridionale e in Libano.

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Tanto per cominciare, quando si arriva per la prima volta nell’area di un campo profughi, sembra proprio di entrare in una prigione. L’area è completamente circondata da un’alta e possente recinzione, come se fosse una zona militare. È infatti una zona controllata dall’esercito, il cui accesso è precluso a chi proviene dall’esterno. Le autorità turche dicono che vogliono tutelare la sicurezza di vive nel campo. Ciononostante, il governo turco ha iniziato a permettere ai residenti di uscire per fare acquisti o per visitare parenti che vivono in altri campi. I rifugiati riferiscono di essere trattati come prigionieri. Per molti, arrivare qui fuggendo la guerra in Siria è come spostarsi da una prigione all’altra. La gente è convinta che il divieto imposto ai media di accedere a questi luoghi è dovuto al desiderio dei governi ospitanti di distogliere l’attenzione da questa problematica; il loro principale obiettivo non è di migliorare la situazione dei singoli all’interno dei campi, ma di fare in modo che tornino alle loro case.

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Il campo di Yayladagi è uno di quelli che ho visitato. È una vecchia fabbrica di tabacco a due piani, situtata a meno di cinque chilometri dal confine siriano. Il campo è solo uno tra i tanti che sorgono lungo il confine turco-siriano. Quando l’ho visitato, il campo era completamente chiuso e l’accesso era vietato. Ho cercato di convincere la polizia a lasciarmi entrare ma non mi hanno creduto quando ho spiegato la ragione della mia richiesta, e cioè che volevo dare una mano ai rifugiati e documentare le loro condizioni di vita.

Non appena ho iniziato a scattare fotografie dell’area, i poliziotti mi hanno urlato che era proibito. Mi sono quindi messo a cercare i rifugiati fuori del campo.

Quelli con cui ho parlato erano molto depressi e preocupati dell’esistenza che conducevano all’interno dei campi; si lamentavano soprattutto che le autorità ospitanti non intendevano concedergli lo status di rifugiati, necessario per vedersi riconosciuto il diritto a lavorare e a stabilirsi nel paese. Ma il governo non vuole che i rifugiati si stabiliscano sul suo territorio. Così loro non hanno altra scelta che restare qui, sperando in un futuro migliore.

Nel campo di Yayladagı ho incontrato Abo Muhammad, un siriano fuggito di recente dal suo paese dopo che la sua casa è stata bombardata. Mi ha raccontato l’esperienza vissuta quando è arrivato in Turchia per la prima volta. Era scappato dalla Siria con la moglie e le due figlie gemelle di due anni. Sono stati tenuti per due giorni in un accampamento militare vicino al confine, ed era l’inizio di febbraio… Gli sono state date coperte militari del tutto indaguate, che non tenevano caldo e che gli hanno causato un continuo e fastidioso prurito. “’Vi erano circa 800 persone in quel rifugio nei pressi del confine”, riferiscce Abo Muhammad, “e molte di loro, tra cui le mie bimbe, si sono ammalate in modo serio”. Alcuni hanno trovato nel cuscino cimici insistenti e nocive, al punto che hanno dovuto farsi curare quando si spostati in altri campi.

Yayladagı sembrava essere in discrete condizioni all’epoca della mia visita ma, quando ho chiesto a chi ci viveva com’era lì dentro, mi hanno risposto che la temperatura era bassissima e non c’era acqua fredda. I bagni erano situati a 500 metri dal rifugio e spesso la gente, compresi bambini congelati, dovevano aspettare il loro turno facendo lunghissime file. La gente iniziava ad ammalarsi per il freddo; tosse e infezioni si diffondevano rapidamente. Malgrado ciò, nessuno si lamentava della propria situazione perché la paragonavano con quella degli sfortunati connazionali rimasti al di là del confine senza acqua, cibo ed elettricità.

Nei campi profughi non c’è in pratica nessuna privacy: la maggior parte delle tende sono vicine le une alle altre, e questo è diventato un problema sempre più grande man mano che i rifugiati continuano ad affluire. Di fatto, sia in Turchia che in Libano si registra un considerevole numero di episodi di molestia sessuale ad opera tanto di uomini locali che di siriani. I matrimoni infantili sono diventati pratica comune tra le femmine, alcune anche di solo 14 o 15 anni, le cui famiglie le costringono a sposare qualcuno che esse non desiderano affatto, per la paura che vengano aggredite o rapite da altri uomini. Così, l’idea che prevale tra i genitori è che sia più sicuro per le loro figlie di essere protette da qualcuno.

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I campi sono sovraffollati e talvolta non c’è spazio a sufficienza per tutti i nuovi arrivati. La Turchia accoglie almeno 180.000 rifugiati siriani, divisi tra 15 strutture disposte lungo il confine turco-siriano. Le persone sono sistemate in pubblici edifici, come scuole e palazzi abbandonati oppure nei campi. Qui le condizioni di vita sono estremamente essenziali; la gente non ha altro da fare che aspettare e vedere cosa il futuro riserva al loro paese. Le tende sono molto spartane, coperte con del semplice nylon per proteggerle dalla forte pioggia. Ma, come si può immaginare, queste tende non sono in grado di affrontare il cattivo tempo. L’inverno è gelido dato che i campi sono situati in aree montuose; e quando piove, le tende crollano addosso a chi ci sta dentro. Inoltre, i campi sono collocati in aree agricole e desertiche, e i venti impetuosi portano polvere e sabbia in abbondanza. La pioggia rende la vita dei rifugiati ancor più miserevole; i campi vengono spesso allagati, e ciò può facilmente causare la morte degli anziani e dei più piccoli. Alcuni cercano di costruire muretti di fango tra le tende per cercare di impedire che l’afflusso di acqua distrugga le tende più fragili.

Per questi motivi, molti rifugiati mi hanno confessato che preferirebbero tornare in Siria piuttosto che vivere in miseria in un paese che non è il loro.

Uno degli aspetti più critici che i profughi devono affrontare all’arrivo è ottenere cure mediche se sono feriti.Curarli può essere molto complicato, e talvolta è un rischio. In Turchia vi sono sostenitori del presidente siriano e alcuni di loro lavorano in ambito medico. Abdulrahman, uno dei rifugiati, mi ha detto che se qualcuno viene dalla Siria con una ferita da proettile sotto il ginocchio, il più delle volte i medici amputano l’intera gamba piuttosto che prendersi il disturbo di operare.

“A volte portiamo i feriti all’ospedale governativo locale”, mi dice Abdulrahman, “ma non li curano affatto come fanno con i turchi, e se hai bisogno di un’operazione urgente ti fanno aspettare 3 o 4 giorni”. Per fortuna non va sempre così, ma può accadere se il ferito cade in mano ai sostenitori del regime siriano che pure esistono qui in Turchia. Rifugiati e medici siriani lavorano alla costruzione di ospedali da campo lungo il confine turco-siriano, così che i pazienti siano più al sicuro mentre vengono curati. E, anche se queste cliniche non hanno le attrezzature necessarie, spesso non sono igieniche e non hanno in pratica alcun elemento in comune con un efficace e salubre ospedale, la gente non ha altra scelta che farsi curare qui.

Il Libano, con solo 4 milioni di abitanti, ospita quasi 500.000 siriani, una cifra enorme per un paese che offre asilo a tempo indefinito per gli sfollati iracheni e palestinesi. Nella valle della Bekaa, nel nord-est libanese, alcuni accampamenti di rifugiati siriani sono stati sommersi dall’acqua dopo l’esondazione del fiume Litani. Centinaia di persone sono state costrette ad evacuare il campo in cerca di riparo, trascinando con sé le loro cose piene di fango. Adesso vivono nei pochi rifugi donati dalle organizzazioni non governative che lavorano là.

Tuttavia, il governo del Libano non consente la creazione di un’area idonea ad ospitare i rifugiati che attraversano i confini giorno dopo giorno. In questo modo, essi finiscono per stabilirsi in campi improvvisati oppure in edifici in stato di abbandono. Se sono fortunati, trovano accoglienza presso un amico locale o presso parenti che già vivevano in territorio libanese.

I siriani nei campi profughi lottano quotidianamente per tutto. Vi è carenza degli elementi di base, dal cibo all’acqua potabile, dai medicinali al riscaldamento; le cattive condizioni meteorologiche e l’insicurezza rende la vita ancora più difficile. Queste carenze sono più acute nei pochi campi presenti in Libano e in Giordania, mentre in Turchia la situazione è livevemente migliore.

Non vi è nulla di attraente in questi campi. Sono senz’altro un luogo più sicuro della Siria, ma non molto di più. Secondo un rifugiato, “ci sono ONG che forniscono assistenza, ma questo non risolve il problema”. Ovviamente, le poche organizzazioni umanitarie che cercano di aiutare i profughi non hanno il potere di farli tornare a casa, e questo resta il punto fondamentale.

Quello che è più triste nella realtà dei campi che ho visitato è l’impossibilità dei residenti di provvedere a sé stessi: tutto ciò che hanno gli viene elargito come una carità, non è concesso loro di lavorare ed essere produttivi. È stato davvero angoscioso vedere cittadini siriani trovarsi a condurre una vita così miserevole lontani da casa, e io ho provato lo stesso sentimento, come siriano costretto a lasciare i propri affetti. Sarebbe bello sentire il sostegno del resto del mondo in giorni come questi.

Quando ho dovuto lasciare la Siria ero molto triste, non sapendo se e quando avrei avuto la possibilità di tornare. Io e la mia famiglia abbiamo cercato di aiutare gli sfollati sia dentro che fuori del paese. I miei genitori hanno un piccolo hotel nella mia città di origine, Hama, dove nel corso del conflitto hanno accolto per molti mesi circa 20 famiglie provenienti da altre città siriane. Abbiamo offerto loro un luogo dove stare nonché del cibo: nonostante anche per i miei questi siano tempi molto difficili, hanno sentito che fosse un loro dovere dare una mano ad altri in difficoltà.

Quando ho deciso di fare questo viaggio nei campi profughi, il mio obiettivo principale era di aiutare il prossimo e fare qualcosa per questo mondo oltre che per il mio paese. Volevo dire a tutti che c’è ancora una speranza sul pianeta, una speranza di pace. Un mio amico, che è stato “peace messenger” per le Nazioni Unite, mi ha incoraggiato a farlo per aiutare la Siria. Quando la guerra e il bagno di sangue saranno finiti, ha intenzione di costruire una biblioteca per i bambini siriani, e lavoreremo insieme per questo obiettivo. Ma per il momento il nostro scopo è aiutare i rifugiati e cercare di rendere migliore la loro esistenza quotidiana.

Ogni giorno incontriamo miseria e sofferenza ma, nonostante il nostro dolore, la vita va avanti. Ritengo sia giusto avere uno sguardo positivo, per questo cerco di dare una mano. Pur essendo un esule, che a volte si sente come se fosse in prigione, credo che dobbiamo superare la nostra disperazione e dare speranza ai più giovani, per rendere il mondo un posto migliore e più unito, perché il mondo è fatto per tutti noi.»

(*) di Yusuf Ibrahim (per motivi di sicurezza, l’autore dell’articolo ha utilizzato uno pseudonimo). Traduzione dall’inglese: Roberto Dati.